La testimonianza, parole, parole… non solo parole
Quanto vale la testimonianza umana?
È una domanda che il ricercatore del “mistero” si deve porre, visto che nella stragrande maggioranza dei casi non ha tra le mani che la sola dichiarazione del testimone. Domanda alla quale, dunque, deve cercare di dare una risposta. Perché da lì, spesso, tutto nasce e, quasi sempre, tutto finisce.
IL VALORE DELLA TESTIMONIANZA
Certo, a volte, a sostenere le parole del testimone sembrano esserci evidenze fisiche o strumentali. Ma sono rare, spesso ambigue nella loro interpretazione, con la conseguenza di non portare a nessuna certezza.
Quindi, cosa fare delle “sole” parole?
Partiamo con il ricordare che il fatto raccontato nasce dalla memoria di chi lo riferisce. Che, a sua volta, ha origine da una visione iniziale.
Andiamo, dunque, idealmente a quei momenti per capire il processo che porta il racconto ad uscire dalla bocca del testimone.
CAPIRE LA REALTÀ
“Vedere” significa, prima di tutto, “capire” ciò che si sta osservando. E, per far questo, si finisce per paragonare la visione, in modo del tutto inconsapevole, a qualcosa che già si conosce, per esperienza e che esiste nella propria memoria. Inutile ricordare come il vissuto sia una faccenda totalmente personale ed originale. Insomma, i ricordi sono unici per ogni persona.
In realtà, non basta “paragonare” a qualcosa che già si conosce per memorizzare. Perché il processo è condizionato dalle aspettative. Si pensi a testimoni di estrazione culturale diversa, e magari lontani fra loro nel tempo e nello spazio, che osservano una “cosa” dalle apparenze vagamente antropomorfe.
Una persona profondamente religiosa vi potrebbe vedere un angelo o un diavolo, l’appassionato di paranormale un fantasma, il cultore degli UFO un alieno, e via di seguito. Quindi, dato che ognuno ci vede un po’ quello che vuole, cos’è davvero quella strana apparenza misteriosamente comparsa?
LA SOGGETTIVITÀ FISICA
Oltre alle differenze dovute al bagaglio culturale di ognuno, occorre fare i conti con le diversità fisiche. Pare banale, ma non lo è. Non tutti hanno la medesima capacità visiva. C’è poco da fare. E questo condiziona enormemente la capacità di sintetizzare in modo coerente ciò che l’occhio vede.
Così come in ognuno l’attenzione è selettiva, e pure in modo diverso. Cioè, nessuno riesce ad osservare tutto e anche bene. Perché la mente si concentra solo su ciò che cattura la sua attenzione. E non è scontato che tutte le menti siano attratte dalla medesima parte della scena. Quindi, ogni testimone racconterà una parte di ciò che è realmente accaduto, cioè solo quella che lo ha colpito. Il resto, per lui, è come se non fosse mai successo.
Fatta questa premessa, pochi istanti dopo la visione il cervello memorizza. Già… ma, vuoi per questione di età (i “peggiori” a memorizzare sono i bambini e gli anziani), vuoi perché la mente va allenata a memorizzare (chi è abituato ad una intensa attività intellettiva lo fa in modo efficiente), il processo è qualitativamente diverso nelle persone.
LA DIFFICOLTÀ NEL RICORDARE
Bene… ora il nostro ideale testimone inizia a recuperare il ricordo.
Ed ecco che con uno sforzo mnemonico (sperando che il soggetto sia motivato) apre idealmente il “cassetto dei ricordi”, per estrarre il “pezzo” dell’evento. Già… magari fosse così semplice…
Perché il ricordo non è come una fotografia, oggettiva e insindacabile. Piuttosto è una ricostruzione, sempre diversa ogni volta che la si fa, mettendo insieme i tanti tasselli (colori, suoni, movimenti, etc) sparsi nel cervello e che costituiscono il fatto. E alla fine succede che si tralasciano dei pezzi e magari se ne assommano, involontariamente, dei nuovi ma che nulla hanno a che fare con l’evento testimoniato (cioè sono dei falsi accidentali).
E, con il tempo che passa, il recupero sarà sempre più artificioso e difficoltoso. Per questo, prima si parla con il testimone e meglio è (poco il tempo passato e poche le volte raccontate).
A questo punto, come valutare le parole del testimone?
LA VALUTAZIONE DELLA TESTIMONIANZA
Per prima cosa, bisogna chiedersi perché mai costui dovrebbe raccontare questi strani fatti. Capirne il motivo vuol dire inquadrare correttamente ciò che esce dalla sua bocca. La situazione ideale è che sia spinto, semplicemente, dalla voglia di capire che cosa gli sia successo. Perché sarà perlomeno sincero.
La faccenda si complica enormemente in tutti gli altri casi. Da chi desidera avere il suo “quarto d’ora di celebrità”, a chi cerca di spillar denaro, senza dimenticare chi vuole prendere in giro il ricercatore.
Quindi, cosa fare, nonostante tutto?
Presupponiamo di trovarsi nella prima situazione, l’unica accettabile e che invoglia a proseguire. Ammetto che non sia facile capire velocemente chi si ha di fronte, solo l’esperienza e il buon senso aiutano. A dire il vero, farebbe comodo raccogliere preventivamente dati sul testimone, specialmente quelli che si riferiscono al suo quadro psicologico, fisiologico e patologico, alla sua famiglia e ai suoi antenati. Ma non sempre è possibile.
IL METODO E LA PROFESSIONALITÀ
Poi, occorre mettere in campo un comportamento professionale. Che ha delle sue regole. Come arrivare a parlare con il testimone il prima possibile, perché, come già accennato, più il tempo trascorre e peggiore diventa la qualità del ricordo. Inoltre, bisogna metterlo a suo agio, affinché non sia distratto da uno stato emozionale non appropriato. Senza dimenticare che le domande che gli si pongono devono essere “aperte”. Cioè, ad esempio, è sbagliato chiedere “di che colore era la cosa?”, piuttosto, “come si presentava la cosa?”. E, più in generale, occorre armarsi di santa pazienza e seguire il filo, spesso contorto, dei suoi ragionamenti, evitando di guidare la sua esposizione. In sostanza, va lasciato parlare, libero di esprimersi come meglio crede.
Naturalmente, alla base di tutto ci deve essere in chi intervista quella cultura “misteriosa”, scientifica e storica indispensabile per inquadrare meglio le parole del testimone (e non farsi imbrogliare).
CONCLUSIONE
Morale, intervistare un testimone come si deve, è una faccenda seria, complicata e che necessità di un’adeguata preparazione. Ma, quasi sempre, le “parole” sono l’unica cosa che il ricercatore ha in mano.
STEFANO PANIZZA